Vincenzo Petrucci
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Valentino

Valentino

Se solo fosse stato ancora di materia viva il sudore freddo sarebbe sceso dalla sua fronte in tanti piccoli affluenti del fiume in piena della sua tensione. Non si aspettava venisse accolta la sua istanza di incontrare Luperco, eppure era lì, alla porta dei suoi domini. Doveva ancora abituarsi all’assenza di qualsivoglia sensazione; vedere le foglie dei caprifogli agitarsi al vento ma non sentire la brezza sulla propria pelle lo stranì ulteriormente. Un arco di pietra coperto di edera interrompeva un infinito muro invalicabile. Al di là uno sterminato campo erboso, un imponente albero di fico e una figura, un’ombra, seduta con le gambe incrociate e le mani poggiate sulle ginocchia.

Valentino si avvicinò, con cautela, passando sotto l’arco e camminando leggero, con il terrore di rovinare il manto erboso. Si rese conto dopo qualche passo di non lasciare alcuna impronta. «Non è semplice parlarmi. La tua è una gran fortuna, devi essere entrato nei favori di qualcuno molto importante per essere al mio cospetto. Parla, ma scegli saggiamente le tue parole. Perché sei qui?» Luperco parlò senza muovere un muscolo. Valentino ebbe l’impressione che le parole venissero direttamente proiettate nel suo inconscio, senza passare dal filtro della sua coscienza, senza essere inquinate dal pensiero illogico dell’essere umano.

«Il mio nome è Valentino. Con il Vostro permesso vorrei raccontarvi la mia storia» Attese una risposta. Qualche secondo. Qualche secondo ancora. Nulla. Proseguì. «Nevicava. Un fatto non nuovo, ma decisamente raro. Ho memoria solo di un altro episodio simile, ma ero troppo piccolo per ricordarne i dettagli. Fatto è che il Palatino era di una bellezza disarmante, coperto di un candido manto rifletteva la luce e illuminava le strade. Sembrava proiettare un ascendente positivo su quanto lo circondasse: i bambini giocavano felici e le donne chiacchieravano allegre per le strade. I Lupercalia quest’anno sarebbero stati un evento da ricordare. I Vostri favori sarebbero scesi a benedire la popolazione come mai prima di quel giorno.

Mi stavo incamminando per scendere ai piedi del Palatino e andare nella grotta del Lupercale, ma non potevo non salutarla. Vederla per me è un’ossessione, è l’unico modo che ho per star bene. Andromaca è la mia vita. Desideravo per lei il privilegio dei Vostri favori, affinché l’anno nuovo ci portasse la gioia di una nascita attesa da lungo tempo. Per questo motivo ero fiero ed entusiasta di essere stato scelto per far parte dei Luperci ed essere l’iniziato per i Quinziali. Quando l’incontrai, sull’uscio della sua porta, ebbi giusto il tempo per un bacio. Il cerimoniale non mi avrebbe atteso.

Giù nella grotta le capre vennero sgozzate, fui segnato del loro sangue e risi. Risi di gusto, con il cuore palpitante di orgoglio e amore. Speravo e ambivo di essere il Vostro miglior adepto. Con il coltello tagliai personalmente le pelli per farne la mia frusta e il mio costume. Ero fiero del mio lavoro e sicuro del Vostro apprezzamento. Mangiammo e bevemmo con trasporto. Dopo qualche ora ci spogliammo e indossammo il costume; come da tradizione ci copriva esclusivamente i genitali. Uscendo dalla grotta eravamo euforici.

Con il primo respiro mi sembrò si congelassero i polmoni. Il secondo fu anche peggio: mille lame affilate come rasoi scavavano dall’interno del mio petto. Vedevo la sofferenza negli occhi degli altri Luperci. Ma cosa avremmo dovuto fare? Contraddire il Vostro volere e la Vostra grazia?

Iniziammo a correre e a saltare tornando verso il Palatino. Quando fummo per le strade iniziammo a colpire le donne con le nostre fruste. Io cercavo Andromaca. Volevo essere io a colpirla. Lei era mia, se il Vostro favore fosse mai sceso su di lei doveva essere convogliato dalla mia mano, la stessa che l’accarezzava ogni sera. La vidi in fondo alla strada, altri due Luperci ci separavano. Corsi come un forsennato, ignorando tutte le altre donne. Riuscii a colpirla, forse con un po’ troppa enfasi; al punto di temere di averle fatto male. Lei mi sorrise. Mi sorrideva sempre quando era fiera di me. Capiva perché l’avevo fatto, anche lei voleva la stessa cosa.

A fine giornata ero stremato. Il freddo si era annidato nelle mie ossa. Passai qualche ora davanti al fuoco con Andromaca. Poi facemmo l’amore e ci addormentammo.

Lei dormiva beata, io mi svegliavo spesso, principalmente per dei forti dolori al petto. Ma ne ero felice, potevo approfittarne per guardarla dormire. Al mattino i dolori erano lancinanti e nulla riusciva a riscaldare il freddo che si generava dal mio corpo.

Credo di essere morto nel corso della mattina, ma non ne sono certo. Ho solo il ricordo di Andromaca e di tutte le sue lacrime versate. Vorrei sentire dolore, vorrei poter piangere a mia volta, ma non riesco.

Io Vi ho dato tutto, vorrei solo…»

«La tua storia mi è nota.», lo interruppe Luperco, «Ti osservo da lungo tempo. Ho visto il seme del vostro amore insinuarsi nei vostri cuori e crescere fino a diventare frutto maturo. Devo confessarti che sono stanco. Mi sento vetusto e sorpassato. Il mio materialismo non è più specchio dei tempi. Da molto medito sul mio valore e sul significato della mia opera. Perdonami se non ti sembro mosso dalla tua storia, ma sappi che nulla succede fortuitamente a questo mondo. Sei qui perché ho fatto sì che questo momento venisse. Perché il tempo di Luperco è finito. È arrivato il tempo di Valentino. Sono sicuro sarai all’altezza del compito.» Con queste parole Luperco svanì, lasciando Valentino da solo, sotto l’albero di fico.

© 2024 Vincenzo Petrucci